Andrea Salone è il fotografo che sta realizzando il progetto dedicato ai minori stranieri non accompagnati della cooperativa Aedis. «Mi piace definirmi scatta storie» (vedi il suo profilo Instagram).
Il fotografo che sta portando avanti il progetto fotografico sui minori stranieri non accompagnati della cooperativa Aedis si chiama Andrea Salone, XX anni di Udine.
- Come è nata la tua collaborazione con Aedis per questo progetto fotografico?
Qualche anno fa ho iniziato a sentire dentro di me la necessità di fare qualcosa, di sentirmi utile per gli altri e con gli altri. Io adoro fotografare: quando scatto non ho sempre la consapevolezza se riesco o meno a far provare emozioni a chi poi guarderà l’immagine, ma sento che proprio l’atto di fotografare mi fa stare bene. E proprio la ricerca di questa sensazione mi spinge a cercare occasioni per condividere il mio sguardo sugli altri e le sensazioni che le relazioni sono in grado di suscitare. La collaborazione con la cooperativa Aedis è arrivata in un certo senso per caso: mi interessava trovare nuove occasioni per osservare il mondo dei migranti e, su questa idea, avevo inviato delle email di richiesta a diverse associazioni e cooperative. Più o meno una decina circa, ma solo Aedis mi ha risposto e io ho colto la palla al balzo. Io credo che ci sia sempre un motivo perché le cose che ci accadono, alla fine di questa avventura di sicuro capiremo qual è.
- Cosa ti ha spinto a raccontare la realtà dei minori stranieri non accompagnati attraverso la fotografia?
Quello che mi ha spinto a guardare e indagare la realtà dei cosiddetti minori stranieri non accompagnati è il desiderio di conoscerli. Sapevo che questi ragazzi non sono come vengono descritti dai giornali o dalle televisioni, vengono da un altro mondo e non è facile adattarsi, ma volevo essere io ad andare a vedere con i miei occhi e fermare quello che coglievo con la macchina fotografica. Andare di persona è l’unico modo, per me, per capire se il pensiero comune sull’immigrato fosse vero o solo un primo strato che è necessario limare e scavare per vedere tutti gli strati che ci sono sotto. E alla fine, quindi, raccontare tutto ciò che non viene detto e visto e condividere la mia scoperta. - Hai già lavorato su progetti simili in passato?
Nell’ambito del reportage sociale ho fatto un progetto per il Messaggero Veneto a Monfalcone con la comunità Bangla, poi a Sant’ Osvaldo con la comunità Teste di Legno e infine a Trieste negli ex-silos dove fino a poco tempo fa erano accampati gli immigrati. L’idea è sempre quella di osservare e poi scavare, vedere cosa c’è dopo il primo sguardo.
- Come ti sei preparato per affrontare questo progetto? Hai adottato un metodo specifico di osservazione?
Non ho un approccio fotografico preciso e continuare a scattare è ciò che mi aiuta anche a imparare continuamente scoprendo ogni volta qualcosa di nuovo su come si fotografa, su quello che fotografo e anche su di me che sono dietro l’obiettivo. Di sicuro odio il mordi e fuggi. Adoro ascoltare, stare a guardare, vivere e capire ciò che ho di fronte: in certo senso si tratta di lasciare che sia la realtà che si dispiega di fronte ai miei occhi e mi permette di osservarla più in profondità. Ma con calma, quando il momento è quello giusto, quando tutto è in posizione. In questo senso, le fotografie diventano quasi una conseguenza, un risultato, il frutto di una pianta che nasce dalla relazione. Prima ci deve essere sempre il lato umano, mio e del soggetto, che entrano in scena. Il mio metodo, forse, è cercare la connessione.
- Come hai costruito il rapporto con i ragazzi?
Il rapporto con i ragazzi è stato naturale e, come tale, si diversifica in base ai caratteri e come le nostre caratteristiche si incontrano: con alcuni c’è una maggiore sintonia, con altri di meno. Non ho legato con tutti allo stesso modo, e questo è normale, ma in tutte le relazioni instaurate sono convinto di aver sempre ricevuto più di quello che ho dato. Io mi sono comportato come avrei fatto con dei possibili amici: li ho presi anche per la gola! Ai ragazzi egiziani piace da matti il krapfen alla crema, meglio se al pistacchio: non lo conoscevano e adesso sono diventati veri esperti di krapfen.
- Quali aspetti della loro vita quotidiana hai scelto di raccontare e perché?
Ho fotografato tutto quello che vedevo all’interno della loro nuovo casa italiana: la comunità di accoglienza di Tarcento della cooperativa Aedis. Sto con loro mentre cucinano, mentre studiano, mentre si rilassano, quando si ritrovano a pensano ai loro genitori e a chissà dove si trovano ora, allora vedi il loro sguardo cambiare, trasformarsi. E senti che potresti essere uno di loro, perché in quella situazione non riusciresti a provare nulla di diverso da loro.
- Cosa speri che le persone colgano guardando le tue fotografie?
Che c’è sempre qualcosa che va oltre quello che vediamo, che l’immagine di ragazzi che si riuniscono in gang per le città è solo quello che fa più notizia. Dietro questi fenomeni c’è una realtà molto più complessa che va gestita nella sua interezza, con le responsabilità del caso ma senza demonizzazioni. Io ho scattato quello che ho visto: ragazzi che stanno fuori casa anche dieci ore al giorno per andare ai corsi o a scuola e che quando arrivano a casa si mettono a dormire, non dei festaioli che passano il giorno a dormire e la notte per le strade.
- Qual è stato il momento che ti ha emozionato di più durante la realizzazione del progetto? C’è stato un momento che mi ha lasciato turbato a lungo e che mi è ancora difficile descrivere: è stato quando Mohamed mi ha mostrato il suo cellulare e mi ha fatto vedere le foto e i video che testimoniano come è arrivato qua. Ho visto la barca che si è ribaltata in mare aperto e lui lì, a fianco a me, che aveva vissuto in prima persona quello che stavo vedendo su uno smartphone. Mi ha toccato nel profondo, sembrava una dimensione tanto lontana quando vicina, tanto impossibile quanto ferocemente vera.
- C’è una fotografia scattata finora che per te racchiude il senso di questo progetto? Se sì, puoi descriverla?
Questa è l’immagine che secondo me descrive meglio l’intero progetto: questo ragazzo sul tetto, in questa sua nuova casa, che guarda oltre, lontano. Il pensiero e il cuore vanno al di là di dove si trovano loro in questo momento.
Il progetto in mostra: on line sul sito di Aedis o su richiesta
Il progetto fotografico di Aedis non ha l’ambizione di dare risposte definitive, ma di offrire uno spazio di riflessione. Un invito a guardare questi ragazzi senza pregiudizi, per quello che sono: persone in cammino, con sogni, paure e desideri, come chiunque altro.
La raccolta degli scatti proseguirà per tutto il 2025 e le fotografie saranno raccolte on line in una sezione specifica del sito di Aedis. Chi desiderasse sviluppare iniziative di divulgazione del progetto può contattare: info@aedisonlus.it


